Michele Armanini

Bolano tra dialetto, cultura materiale, tradizioni e gastronomia[1]

 

 Lo studio dell’insieme di usi, costumi e tradizioni di un determinato gruppo umano (di paese, vallata, regione culturale…) è studiato dall’etnografia e dall’etnologia. Si tratta di scienze complementari alla dialettologia ed alla linguistica che, anzi, potrebbero esserne considerate parte. Infatti la cultura di una comunità è fatta di elementi “materiali” e di elementi “immateriali” Tra i primi rientrano ad esempio determinate tipologie di attrezzi agro-silvo-pastorali o di utensili domestici, l’architettura rurale, la distribuzione delle abitazioni, degli agglomerati e dei manufatti e il loro connubio col territorio, ma anche le razze animali allevate e le varietà vegetali coltivate, le pratiche agrarie, le unità di misura, la cucina locale o il vestiario tradizionale); tra i secondi si annoverano  lingua, folclore, religiosità e  narrativa popolari ecc.

La lingua è, assieme al vestiario (e per il loro aspetto “aggregativo” anche la musica popolare ed almeno un certo tipo di narrativa), uno dei primi elementi della cultura di una comunità che tende a mutare a seguito di contatti con l’esterno. Molto più conservativi sono invece quegli elementi legati alla sfera domestica o peri-domestica della civiltà contadina, all’agricoltura ed all’allevamento di sussistenza, i quali, tendenzialmente, rimangono molto ai margini delle relazioni tra individui di comunità diverse. Fortemente legato all’aspetto etnografico è il lessico, che, in qualche modo, fa da ponte tra lingua e cultura materiale. intendo la nomenclatura che corrisponde ai vari oggetti, azioni, concetti della vita di tutti i giorni.

 La distribuzione areale delle caratteristiche etnografiche delle diverse comunità consente di tracciare dei “confini”, spesso più netti di quelli dialettali odierni e di fare sia dei paragoni con quelli che sono o sono stati i confini naturali, politici o ecclesiastici, sia congetture sui probabili confini dialettali del passato.

In questo lavoro, per facilitare la lettura a tutti e dato che l’aspetto fonetico non è quello principale, oltre ai normali caratteri si useranno i seguenti:

è corrisponde alla pronuncia “aperta” della e come nell’italiano “terra”

é corrisponde alla pronuncia “chiusa” della e come nell’italiano “mela”

ò corrisponde alla pronuncia “aperta” della o come nell’italiano “molo”

ó corrisponde alla pronuncia “chiusa” della o come nell’italiano “torre”

ə vocale indistinta, suono intermedio tra la e e la o “chiuse”

j è il suono semiconsonantico della i in paio

ghj è un suono intermedio tra la g di “magione”, la gh di “ghiaia” e la d di “armadio”

chj è un suono intermedio tra la c di “Lucia”, la ch di “torchio” e la t di “astio”

s pronuncia sonora della s come nell’italiano “sguaiato”

s pronuncia sorda della s come nell’italiano “stanga”

z pronuncia sonora della z come nell’italiano “manzo”

z pronuncia sorda della z come nell’italiano “stanza”

 

Geografia storica, cultura ed identità tra Liguria e Lunigiana

Il territorio bolanese è da sempre parte della Lunigiana, cioè di quel territorio che fin da epoche molto antiche mostra una notevole omogeneità culturale e che, tra l’Antichità ed il Medioevo, farà capo amministrativamente ed in seguito anche ecclesiasticamente alla città di Luni e comprendente le attuali province della Spezia e Massa Carrara e la parte settentrionale di quella di Lucca (nello specifico buona parte di Garfagnana e Versilia, sub regioni complementari alla lunigiana nella loro interezza[2]), oltre che un piccolo lembo di territorio demograficamente e territorialmente poco rilevante sulla sponda destra dell’alta Val Taro (oggi parte della provincia di Parma)[3].

Col passare dei secoli Luni andò in decadenza fino a scomparire come città, ma ad essa sopravvisse e sopravvive tuttora un territorio lunense o lunigianese, nonostante che  l’originaria unitarietà sia da secoli erosa da molteplici influenze, dovute al ruolo di terra di passaggio e di confine svolto da sempre dalla Lunigiana o alla sua frammentazione e sottomissione (politico-amministrativa, in alcune zone anche ecclesiastica) a Genova, a città toscane (Lucca, Firenze) o padane (Parma, Piacenza, Modena, a tratti anche Milano).

Lo studio de dialetto e più in generale della cultura di una qualsiasi comunità prescinde dai confini amministrativi moderni e non di rado anche da quelli del passato. Ad esempio le tradizioni bolanesi sono molto più simili a quelle albianesi o podenzanesi (nonostante in mezzo passino un confine provinciale ed uno regionale, oltre che, in passato, il confine tra due stati) che non a quelle spezzine o brugnatesi (ed allo stesso modo ad Albiano, Podenzana ecc. ci sono molti più cose in comune con Bolano che non con Massa, Carrara o Pontremoli). Questo può sembrare banale, ma non sempre è così. Ad esempio il crinale appenninico tra la Cisa e l’Abetone è un confine piuttosto netto, oltre che dal punto di vista storico ed amministrativo, anche da quello culturale e linguistico.

Esistono dinamiche, legate alla morfologia del territorio, alla conseguente viabilità, al tipo di economia, a consuetudini ataviche, che, più ci si addentra nel “particolare” e sempre più risultano svincolate dalla “storia ufficiale”. Queste dinamiche hanno fatto sì che, sin dalla preistoria e fino all’avvento dei mezzi di comunicazione moderni, alcuni gruppi di popolazione si legassero tra loro svincolandosi da vicini visti come diversi, sviluppando una propria “identità”.

 Le varie “culture” o “identità” che in parte ancora oggi sopravvivono in Italia ed in Europa, si sono formate tra la fine dell’Età Antica e gli inizi del Medioevo. In quel periodo, infatti, le varie sfaccettature della Romanità, cultura non unitaria nemmeno in Italia perché a tratti ancora permeata del sostrato preromano, si arricchiscono di elementi provenienti da altre popolazioni, soprattutto di matrice germanica, dando vita alle culture che conosciamo ancora oggi. Non è un caso che, spesso, i confini dialettali e/o culturali che possiamo ricostruire al giorno d’oggi coincidano con quelli dei comitati, delle diocesi e delle pievanie alto-medievali, che a loro volta, in molti casi, ricalcavano i limiti tra i vari municipi di epoca romana[4].

La Liguria, da un punto di vista linguistico e culturale, è più ampia della regione amministrativa. Essa coincide, in parte, con quello abitato dai Liguri in epoca preromana, ma non dobbiamo pensare che le tradizioni, gli oggetti o le espressioni che oggi accomunano l’area siano eredità diretta con gli antichi Liguri: si tratta solo di un “percorso” iniziato allora, ma, come detto, la cultura ligure attuale è risultato di una serie di stratificazioni che hanno completamente (o quasi) nascosto gli elementi liguri preromani. Lo stesso discorso, più nello specifico, vale per l’areale abitato dai Liguri Apuani, (Lunigiana, Garfagnana e Versilia)[5]. Esiste forse qualche coincidenza in più, anche dal punto di vista geografico, tra l’odierna area culturalmente ligure e la Maritima Italorum, cioè la Liguria bizantina, che visse come entità amministrativa (e militare) isolata dall’esterno (almeno via terra), proprio nel periodo cruciale di formazione delle varie culture italiane. Ancora una volta si può scendere più nello specifico pensando al territorio lunense alla fine di quel periodo[6].

Dialetti liguri si parlano infatti in alta e media valle Roia (amministrativamente in Francia), in alta Val Tanaro, nell’Ovadese, nel Novese, in Val Borbera e in alta Val Curone (Piemonte), nell’alta Valle Staffora (Lombardia), in Val Trebbia a monte di Bobbio, in tutta la Val d’Aveto nonché nelle alte valli Nure, Ceno, Taro e in parte Arda (Emilia Romagna e in parte Lombardia)[7]. Vi sono però anche due zone dell’attuale Liguria dove non si parlano dialetti liguri, o comunque non completamente tali: mi riferisco all’alta Val Bormida (nell’Oltregiogo savonese, dove la lingua tende per non pochi aspetti più al piemontese) e soprattutto alla parte sud-orientale della Provincia della Spezia (quindi anche a Bolano[8]), dove si parlano dialetti lunigianesi, che seppur in parte legati al ligure, ne differiscono per molti aspetti peculiari, condividendo inoltre alcuni tratti coi dialetti emiliani (pur non facendo assolutamente parte neanche di questi ultimi) e alcuni (pochi, per la verità), col toscano. I dialetti lunigianesi o lunigiani sono parlati anche nella provincia di Massa Carrara e nell’alta e in parte media Garfagnana (LU)[9]. Nel resto della provincia Spezzina si parlano, fino ai comuni di Bonassola, Carrodano e Sesta Godano, dialetti di tipo “ligure orientale” (ben differenziati tra loro[10] e con diversi aspetti in comune col lunigiano, sempre più numerosi man mano che si procede verso sud-est), mentre dialetti di tipo genovese sono parlati a Framura, Deiva Marina, Carro, Maissana e Varese Ligure[11].

Bolano, rispetto ad altri centri della parte sud-est della provincia spezzina, ha conosciuto storicamente una presenza genovese piuttosto marcata, dato che molte famiglie patrizie da Genova si stabilirono nel borgo. Tutto ciò sembra non aver lasciato quasi nessuna traccia dal punto di vista etnografico-linguistico[12], fatta eccezione, forse, per alcuni elementi lessicali quali zobia per “giovedì”[13] e barba per “zio”, assenti tutt’intorno a Bolano e diffusi invece dalla media Val di Vara in poi in gran parte dell’area ligure.

Dal punto di vista culturale, però, se l’alta Val Bormida presenta anche sotto questi aspetti molte cose in comune col Piemonte e non col resto della Liguria, invece la Lunigiana (e con essa Garfagnana e Versilia), seppur con le sue peculiarità, fa parte della Liguria, avendo invece pochissimo in comune sia con l’Emilia che con la Toscana.

Oggi esistono numerosi studi sui vari dialetti della Liguria e su quelli di tipo ligure in genere, sia sul piano lessicale che su quelli fonetico, morfologico e sintattico[14]. Abbiamo anche autorevoli classificazioni dei dialetti liguri, studi, cioè, che evidenziano come esistano più varianti del ligure, raggruppabili in macroaree che corrispondono sostanzialmente al Ponente (dalla Valle Roia al Finalese), all’area genovese (da Noli a Framura), al Levante (da Bonassola alla Spezia) ed all’Oltregiogo (a sua volta suddiviso in occidentale, centrale ed orientale)[15].

Purtroppo non possiamo dire lo stesso sullo studio della cultura ligure, sull’etnografia, dato che esistono studi particolareggiati su singole aree (ad esempio Val Graveglia a Levante e parte  brigasca della Valle Argentina a Ponente)[16] o su singoli aspetti (ad esempio le credenze e la religiosità popolari)[17], ma non uno studio d’insieme che evidenzi le particolarità dell’area ligure rispetto a quelle limitrofe o che cerchi di evidenziare l’esistenza di più “sottoculture” all’interno di essa. D’altra parte per molte regioni culturali in Italia mancano studi del genere. Solo dai materiali degli atlanti linguistico-etnografici è possibile farsi un’idea, seppura di massima, sulla geografia etnologica del nostro Paese[18].

Da anni conduco ricerche etnologiche in tutta la Liguria e nei territori limitrofi, effettuando interviste soprattutto agli anziani, cioè a chi è esperto in quella che era la vita rurale che si conduceva in zona fino a pochi decenni fa. L’obbiettivo, probabilmente velleitario, certamente ritardatario (data l’ormai avvenuta scomparsa del mondo rurale) è proprio quello di cercare di colmare questa lacuna. Essendo originario ed abitando in zona i miei studi si sono concentrati soprattutto su Lunigiana e dintorni, ma negli ultimi anni conduco costanti sopralluoghi anche nel resto dell’area ligure e dei territori limitrofi.

I Liguri dell’antichità pare non avessero una coscienza etnica unitaria: si identificavano come appartenenti ad una singola tribù, ma non come membri di un popolo, se non in negativo, rispetto ad altre popolazioni (Celti, Etruschi, Romani ecc.). I Genovesi odierni hanno invece un senso identitario molto forte, che però è avvertito assai meno dagli altri liguri. Infatti se ad esempio andiamo nell’estremo Levante (cioè in Lunigiana[19]) o nel Ponente questo sentimento è assai attutito, se non più o meno apertamente negato. Anche i Liguri odierni, Genovesi e non, si identificano “in negativo” quando si rapportano ad i loro vicini. Infatti, quasi in tutta la Liguria “storica”, i termini di retaggio medievale Lumbardìa e lumbardu indicano le zone culturalmente “padane” ed i loro abitanti[20]: dalla Lunigiana si andava in Lombardìa varcando il crinale appenninico a partire dal Passo della Cisa verso est, mentre non erano considerate Lombardia le zone immediatamente a nordovest del passo, cioè le alte valli Taro e Ceno, evidentemente abitate da comunità di cultura ligure ed in qualche modo sentite culturalmente più affini anche dagli stessi Lunigianesi[21]. Dalle medesime zone lunigianesi, come da quelle versiliesi e garfagnine, si andava in Toscana se si scendeva nella Piana di Lucca a Viareggio ecc.[22]. Qua e là nelle alte valli Taro, Ceno, Nure e Trebbia, amministrativamente emiliane c’è ancora chi con Lumbardìa indica la Pianura Padana e l’area collinare tra essa e l’Appennino: è notevole ad esempio che a Zerba (nella parte culturalmente ligure ma amministrativamente piacentina dell’alta Val Trebbia) si ricordi un valu lumbardu cioè una tipologia di “capisteo” per ventolare castagne e granaglie diversa da quella locale (molto simile a quella lunigianese ed identica a quella del Tigullio) e che invece corrisponde al tipo utilizzato soprattutto a partire dal Bobbiese in poi verso la Pianura Padana. Nelle valli Scrivia, Lemme ed Orba, quindi ben dentro i confini amministrativi della provincia di Alessandria (addirittura fino alle zone “liguri” più marginali come Pasturana, come ho potuto constatare), è o era lumbardo e Lumbardìa tutto ciò che si estende a nord e a nord-ovest[23]. Anche nel Ponente la situazione non cambia e addirittura nell’entroterra del Nizzardo (nel bacino del Varo, quindi già fuori dall’area culturalmente ligure) la lumbarda o lumbardo è la tramontana, ossia il vento che viene da nord, da oltre lo spartiacque col Piemonte[24]. Mi pare significativo non aver trovato[25] espressioni simili nell’Oltregiogo savonese centro-occidentale, effettivamente a cultura prevalentemente piemontese, quindi “lombarda”.

In Liguria e dintorni, quindi, doveva esistere già una percezione della diversità verso l’”altro” e, di conseguenza, nonostante i distinguo interni al mondo ligure[26], un’inconscia “solidarietà” verso i propri “simili”, non intesi come Liguri, ma come non Toscani, non Lombardi e non Provenzali. È chiaro che questo “sentire” travalicava di gran lunga il concetto politico-statale di genovesità.  Ed è proprio questo l’approccio con cui ci siamo rapportati col territorio, con i suoi usi ed i suoi tratti linguistici, seguendo non un’ottica di genovesità[27], ma un insieme di tratti che sono condivisi in quell’area e che allo stesso tempo  la distinguono da quelle culturalmente e/o linguisticamente occitane, padane o toscane.

Esistono alcune caratteristiche linguistiche analoghe tra le zone liguri non genovesi, cioè tra il Ponente e la Lunigiana, caratteristiche che sono assenti invece in tutte le zone circostanti (Provenza, Piemonte, Lombardia, Emilia, Toscana) ma anche nella Liguria centrale o “genovese”. Queste caratteristiche sembrano attestare che esiste una Liguria svincolata dai retaggi della dominazione e dall’identità genovesi. Pensiamo ad esempio a pronunce tipo àutu (in certe zone àuto) per “alto”: le ritroviamo, oltre che in Piemonte, in buona parte del Ponente e della Lunigiana, mentre nell’area genovese abbia àtu (come in gran parte dell’Oltregiogo). Una distribuzione simile sul territorio hanno anche alcuni tratti lessicali, come ad esempio il tipo màstra per “madia”[28] e segùra (che a seconda delle zone assume varie pronunce segü, sgü ecc.) per “scure”[29]. Il primo lo ritroviamo in quasi tutta la Lunigiana a partire già dall’alta Val di Vara (Varese, Maissana, Carro)[30] fino alla Val di Magra ed alle Apuane di Carrara, così come in tutto il Ponente, già dal Finalese (dove è alternato al tipo genovese) fino all’area intemelia (dove compare anche il peculiare tòuru) ed al Nizzardo; tra Noli e Framura abbiamo solo mèisia, csì come in buona parte dell’Oltregiogo (escluse le zone occidentali e, a oriente, le valli Nure, Ceno, Taro e Arda). Il secondo lo ritroviamo in tutta la Lunigiana a partire già dall’alta Val di Vara e dai centri collinari del Levantese (dove è alternato al genovese picòssa e simili) fino alla Val di Magra, alla Garfagnana ed alle Apuane, così come in tutto il Ponente, già dal Finalese (altra zona dove è affiancato dal vocabolo genovese) fino a buona parte dell’area intemelia (dove compare anche il peculiare martà); tra Noli e Framura abbiamo solo picòssa, nell’Oltregiogo segü e simili (eccetto nelle zone più vicine al crinale come ad esempio a Montebruno in Val Trebbia). E sono numerosi i casi simili.

Per la teoria delle aree laterali sembra quindi che la nostra Lunigiana faccia parte dell’area culturalmente ligure fin da epoche piuttosto antiche[31].

 

Elementi di etnografia di Bolano e dintorni

Dal punto di vista etnografico, possiamo definire un’area ligure ed all’interno di essa alcune sotto-aree tra cui quella lunigianese, esaminando la diffusione di alcune varianti di strumenti agricoli “universali” come l’aratro, l’erpice, il giogo, la zappa e la vanga[32].

 

Aratri, erpici e gioghi

A Bolano e dintorni, come nel resto della Lunigiana, l’aratro, l’erpice ed il giogo tradizionali erano quelli tipici della Liguria.

Dal Nizzardo fino a Lunigiana, Garfagnana, Versilia e ai margini orientali e occidentali delle Apuane meridionali, un tempo era in uso un particolare tipo di aratro (strumento un tempo a trazione animale utilizzato per dissodare i terreni), con stegola curva e spesso (ma non sempre) ricavata dallo stesso pezzo di legno in cui era stato foggiato il ceppo, al contrario delle ali, costruite separatamente e fissate al ceppo con dei chiodi. Questa tipologia viene definita “ligure”, in quanto è tipica della Liguria, dellʹAppennino emiliano occidentale, delle Alpi Marittime e dellʹarea Apuana, mentre scompare nelle aree culturalmente padane o toscane, dove le tipologie di aratro tradizionali erano ben diverse[33]. Questo strumento è uno dei pochi elementi che potremmo far risalire direttamente alla cultura ligure preromana, in quanto la tipologia sembra identica agli aratri raffigurati in incisioni rupestri preistoriche delle Alpi Marittime, mentre l’aratro tradizionalmente diffuso in gran parte della Toscana a partire dalla Piana lucchese, dal Pisano ecc., è identico a quelli riprodotti in alcune raffigurazioni etrusche[34].

L’erpice (strumento un tempo a trazione animale usato per sminuzzare la terra dopo l’aratura) nell’area padana ed in quella toscana era di forma rettangolare, mentre in Liguria aveva la caratteristica forma triangolare. Anche questa caratteristica la ritroviamo dal ponente alla Versilia ed alla Garfagnana, mentre immediatamente più a sud troviamo l’erpice rettangolare. Nell’Oltregiogo, invece, era presente l’erpice di forma trapezioidale[35].

Anche il giogo, che serviva ad attaccare i bovini da lavoro all’aratro, all’erpice o al carro, in Liguria (dall’estremo Ponente a Versilia e Garfagnana) ha caratteristiche proprie che lo distinguono sia da quelli padani che da quelli toscani, mentre nell’Oltregiogo, anche in questo caso abbiamo spesso dei modelli ibridi tra quelli liguri e quelli padani[36].

 

Zappe e bidenti.

In Liguria come in Italia centro-meridionale ed in Istria la zappa aveva quasi sempre il manico più corto rispetto a quanto avveniva nel resto dell’Italia settentrionale ed in quella centrale (a partire dalla Lucchesia)[37]. Infatti il manico della zappa (e del bidente[38], a Bolano, come in gran parte della Lunigiana e dell’alta Garfagnana furcón[39]) in Liguria si aggira, di solito, intorno al metro di lunghezza (cioè arriva di solito alla cintura dell’operatore, adeguandosi, ovviamente, all’altezza di quest’ultimo), caratteristica che si estende dalla Versilia e dalla Garfagnana fino al Nizzardo ed a parte della Provenza[40]. Nell’Oltregiogo, solo nell’alta Val Bormida sono presenti anche zappe con manico piuttosto lungo, mentre nelle altre zone le zappe con manico corto lasciavano il posto a quelle “padane” (con manico che arrivava fino a 140-160 cm) solo a partire dal tratto collinare della Val Tanaro e delle valli del versante adriatico dell’Appennino a ovest della Cisa, in altre parole dove avviene il passaggio da dialetti prevalentemente liguri a dialetti prevalentemente padani.

Anche non appena si varca il crinale tra la Valle del Magra e quelle (ad est della Cisa) di Baganza, Parma, Enza e Secchia il manico della zappa diviene subito quello lungo[41]. Quest’ultimo dato dimostra che la lunghezza del manico della zappa non varia in rapporto alla altimetria o alla morfologia ed alla pendenza del suolo (come alcuni affermano), ma si tratta di un fatto culturale, altrimenti anche nell’alto Appennino emiliano (e a maggior ragione sulle Alpi) si userebbero strumenti col manico corto. Inoltre, se si fa un ragionamento pratico, ci si rende conto che in montagna come in pianura la zappa si usa sempre su terreni più o meno spianati, almeno se su quei terreni si vuole coltivare qualcosa.

 Come in quasi tutta la Lunigiana (eccettuata solo l’alta Val di Vara), però, come anche come nell’Appennino modenese, nella Lucchesia e nel Pistoiese, le zappe nella zona di Bolano potevano avere il filo della lama a coda di rondine o più o meno incavato, che formava, cioè, come due punte alle estremità[42].

Dal punto di vista lessicale è interessante che a Bolano e dintorni si usi il termine marón. Si tratta di un derivato di marra, che in Toscana ma anche in Corsica, Versilia-Garfagnana, Val di Magra, Golfo della Spezia e bassa Val di Vara (Bolano, Piana Battolla, Madrignano), indica la “zappa”[43]. Si tratta di un termine che però non doveva essere del tutto sconosciuto nella Liguria genovese, in quanto, come nell’intera provincia spezzina, anche in quell’area abbiamo la parola mara-piccu (o mara-pico) che indica il “malimpeggio”, sorta di piccone con da una parte una zappetta e dall’altra un’accetta usato per dissodare terreni, tagliare radici ecc.[44].

La zappa era, in certe zone liguri in cui non poteva essere utilizzato l’aratro, l’unico strumento per il dissodamento e la lavorazione del terreno. Infatti la vanga era assente in gran parte della Liguria marittima (o, meglio, “cisappenninica”), ma era ben presente nell’Oltregiogo (eccettuate alcune zone più alte della Val Trebbia, ad esempio Propata, Fascia, Zerba, della Val d’Aveto, ad esempio Cattaragna e Castagnòla e della Val Curone, ad esempio Bruggi) ed in tutta la Lunigiana, compresa la provincia spezzina[45]. In questo Bolano e il suo territorio non fanno eccezione.

 

 

Recipienti per ventolare granaglie, castagne ed olive.

Il “vallo” o “capisteo” era un contenitore che poteva essere in legno a pianta trapezioidale coi bordi solo su tre lati e svasati verso l’esterno (nella nostra zona vasóra), oppure intrecciato in salice e stecche di castagno e di forma vagamente a valva (nella nostra zona valu o valo). Entrambi erano usati per separare la pula dal grano, le foglie dalle olive, le bucce dalle castagne secche ecc. Il modello in legno (probabilmente derivato da quello ad intreccio) era usato nell’Appennino emiliano ad est della Cisa, nell’Appennino pistoiese, in Lucchesia, in Versilia, in Garfagnana, in media e bassa Val di Magra e sporadicamente in bassa Val di Vara (ad esempio in alcune famiglie della zona di Calice). In altre zone appenniniche della Toscana, dell’Emilia centro-orientale, della Romagna e dell’Umbria era utilizzato un modello in legno ma a forma rettangolare, che probabilmente niente aveva a che fare col modello a intreccio. Nel resto della Toscana e delle aree alpina, padana e italiana centro-meridionale ed insulare si usava invece un’apposita pala in legno, con lungo manico, sconosciuta in gran parte della Liguria, dove era usata, per scopi diversi dalla ventilazione, solo nelle zone più marginali (ad esempio in Lunigiana e Garfagnana c’era chi la usava per movimentare le castagne nel seccatoio)[46].

Il capisteo ad intreccio era usato per ventolare i suddetti prodotti agricoli in Provenza, lungo tutto l’arco alpino, in Liguria, nell’Appennino emiliano a ovest della Cisa, nell’alta Val di Magra ed in tutta la Val di Vara, ma, come strumento da trasporto era utilizzato anche nel resto della Lunigiana, della Garfagnana e in parte dell’alta Versilia, oltre che nella parte alta dell’Appennino emiliano a est della Cisa[47].

Nel territorio bolanese sono ricordati entrambi gli strumenti, quello a intreccio e più sporadicamente quello in legno.

 

Metodi di trasporto

A Bolano e dintorni in passato era molto diffuso, da parte delle donne, il trasporto di ceste, secchie e carichi vari sulla testa. A questo scopo si usava un panno arrotolato e posto a corona sopra la testa, il “cercine”, che in zona era detto varcu, così come in buona parte della Val di Vara e della Riviera spezzina (fino a Carrodano, in parte Carro, Sesta G. e in parte Framura), in bassa e in parte media Val di Magra (guèrco, guarco ecc.) e nella zona di Montignoso, Massa, Carrara (gualco). In area genovese ed anche in alta Val di Vara si dice sutéstu, termine che ha gli stessi richiami dello scò della zona di Filattiera e in parte Bagnone e dintorni (da “sul capo”) ed al succàporo di parte della Val di Lima, della Lucchesia e delle Apuane meridionali, mentre in gran parte della Garfagnana e nel resto della Val di Magra si usa corójo o crój o simili (come in parte dell’alto Appennino emiliano) ed in Versilia e nella zona di Pescaglia cèrcine[48]. Il trasporto in testa, così come il manico della zappa più corto che altrove, accomuna l’area ligure a quella dell’Italia meridionale. Infatti questa usanza era poco o per nulla diffusa nelle zone padane o toscane (se non nelle aree più a contatto con Liguria, Lunigiana, Garfagnana, Umbira, Lazio, Marche), mentre era diffuso in tutto il Nizzardo ed in buona parte della Provenza costiera. Anche in parte dell’Oltregiogo ligure orientale (versante sisnistro dell’alta Val Trebbia, alte valli Staffora e Curone) questa usanza non è ricordata, mentre lo è nelle immediate vicinanze (versante destro della Val Trebbia, Val d’Aveto ecc.).

A Bolano è ricordato anche il nome del “cercine maschile”, che, come in tutta l’area ligure, compresi il resto della Val di Vara e il versante destro della bassa Val di Magra è detto pagétu (perché costituito da una vecchia giacca o un vecchio sacco imbottito di paglia che una volta fissato sulla fronte andava a costituire un’imbottitura poggiante sulla nuca). In media e alta Val di Magra (e anche sul versante sinistro della bassa valle) non sono ricordati termini specifici, sulle Apuane massesi e in parte dell’alta Garfagnana (Vagli) si diceva capparùccia, nel resto di Versilia e Garfagnana bardèlla[49].

 

Recipienti per lo stoccaggio dell’olio

Per i recipienti in cui veniva conservato lʹolio (di oliva, ma anche di noci[50]), Bolano è in una situazione particolare. Infatti, nella nostra zona, non solo si nota come in tutta la Lunigiana la compresenza del manufatto tipico della Liguria, di quello della Toscana e di quello peculiare dell’area lunigiano-apuo-garfagnina, ma anche dal punto di vista lessicale Bolano si trova in una singolare posizione di convergenza.

Infatti nella nostra zona troviamo l’orcio tipico di Liguria, Nizzardo, Provenza e Piemonte meridionale[51]. Si tratta di recipienti (di varie misure) di forma ovulare e orlo moderatamente svasato o di forma sborsata e orlo ampiamente svasato[52], di impasto rossastro coperto da ingubbiatura color avana o bruna e con smaltatura interna giallastra, che deborda allʹesterno fino al collo del contenitore stesso[53]. Erano prodotti a Biot[54], in Provenza ma a una dozzina di km dal corso del Varo (confine tra Provenza e Nizzardo) e commercializzati soprattutto dai Genovesi[55]. Questa tipologia di orci era utilizzata dalla Provenza alla Corsica e, passando per il Nizzardo e il Piemonte meridionale, lungo tutto l’arco ligure (qua e là anche in tutto l’Oltregiogo) fino nell’estremità meridionale della Versilia (Camaiore[56]), ma scompariva più a sud (Massarosa, Viareggio, Val Freddana).

Ma a Bolano e dintorni erano abbastanza diffusi pure gli orci toscani, cioè recipienti cilindro-ovoidi o con massima espansione subito sotto lʹorlo, di impasto rossiccio privo di rivestimento, con smaltatura che non deborda sullʹesterno e muniti di fasce-rinforzo orizzontale e/o bugnette-manici dello stesso impasto del corpo[57]. Erano prodotti da secoli nel Fiorentino (Montelupo, Impruneta) e forse anche a Lucca. Oltre che nella regione in cui erano prodotti erano presenti in Emilia centro-orientale ed in Romagna ma anche qua e là in tutta Val di Magra, in Val di Vara, nel Levantese  e sporadicamente fin in Val Petronio (probabilmente per gli stretti contatti con la zona di Maissana)[58].

Ma a Bolano come nella Riviera spezzina, nelle valli di Vara e Magra, in Versilia e Garfagnana (fino Camaiore, Pescaglia Borgo a M. ecc.), erano utilizzate tradizionalmente (e assai prima degli orci) vasche parallelepipede scavate nella pietra o  nel marmo, in Lunigiana dette cónca o, come a Bolano, préda (in media e alta Val di Vara prìa), cioè “pietra” (in Garfagnana e Versilia pózza o pìla). Tali recipienti erano gli stessi usati, in alternativa alle bigonce e barili di legno, per stagionare il lardo (nel Carrarese) e le carni in genere, per conservare i salumi (nella media Val di Vara) o per la salagionatura delle acciughe (in altre zone dello Spezzino).

Dal punto di vista della denominazione dell’orcio in terracotta a Bolano abbiamo giàra (o giaréta) come in quasi tutta l’area ligure, che prosegue anche in area occitana e francese. Ma si registrano anche cópo (come in bassa Val di Magra, Versilia e, non in modo compatto, in Garfagnana, oltre che in Lucchesia, nel Pisano ecc., dove naturalmente abbiamo la doppia) ed orzu (come in alta e media Val di Magra, qua e là in Garfagnana e, accanto a giara, in Val di Vara fino a Carro e Groppo di Sesta G.[59] e sulla costa spezzina fino Vernazza, oltre che nella Toscana centrale)[60].

 

Secchio in rame per il trasporto e lo stoccaggio dell’acqua potabile

Anche a Bolano era ben presente come in gran parte delle case della Liguria, prima dellʹarrivo dellʹacqua corrente, era presente la stagnàra, altrove detta ségia (con le varianti sécia, séchja, séglia, séja…) o ramìna, contenitore in rame di forma troncoconica (con la base rivolta verso l’alto) munito di una base anch’essa troncoconica (ma con la base verso il basso) e, nella maggior parte dei casi, di due piccole maniglie sull’orlo[61], con cui la donna attingeva lʹacqua alla fonte e la trasportava, in testa, fino a casa.

Questo tipo di recipiente era tradizionale dalla Garfagnana e dalla Versilia fino nelle valli Roia e Bevera, alle zone brigasche dell’alto Tanaro (non a Garessio, Ormea ecc.) ed alla fascia costiera del Nizzardo (ma non nel suo entroterra) ed in alcuni centri della Corsica nord-occidentale[62], mentre era sconosciuto in area culturalmente toscana (dove veniva usata esclusivamente la brocca in rame; la secchia era presente, accanto alla brocca, solo nelle zone di Valfreddana e Valdilima confinanti con Garfagnana e Versilia) e su tutto il versante adriatico dell’Appennino (compreso l’Oltregiogo, dove, come in Emilia, Piemonte, Lombardia ecc., si usavano secchi in rame con manico ad arco, snodati, spesso trasportati in coppia con l’aiuto di un bastone che faceva da bilanciere)[63].

 

Strumento per dare la forma al formaggio

Bolano, la bassa Val di Vara e la media Val di Magra sono una zona di passaggio anche per la diffusione dello strumento usato tradizionalmente per dare la forma al formaggio[64]. Infatti in Italia nordoccidentale, in gran parte della Liguria, in alta Val di Magra e nell’Appennino emiliano occidentale[65] era diffusa una sorta di ciotola in legno (di solito ontano) munita di alcuni fori sul fondo, che permettevano la fuoriuscita del siero (il quale veniva raccolto in un apposito recipiente in legno o in un tegame) e chiamata fascèla e simili in Liguria e dintorni. In parte dell’arco alpino, in gran parte dell’Emilia-Romagna, in Toscana, in area garfagnino-versiliese e nel resto della Lunigiana (quindi anche in bassa Val di Vara, specie sulla sponda sinistra[66], ma qua e là anche in alta Magra fin nel Pontremolese), era utilizzata una sottile tavoletta di legno (di solito faggio), la quale veniva come arrotolata su se stessa, in modo da formare un cerchio (o se vogliamo un recipiente senza fondo) e poi legata con uno spago tutto attorno il quale, tirato progressivamente attorcigliando un bastoncino o un cucchiaino ad un’apposita asola, faceva sì che la forma di formaggio posta dentro al “cerchio” venisse strizzata (il siero veniva raccolto in una teglia o fatto scolare su di un’apposita tavoletta munita di spondine e/o canalette che lo convogliavano in un altro recipiente o direttamente nella caldaia in cui veniva poi fatta la ricotta).

Nel territorio bolanese era utilizzato esclusivamente il secondo strumento, chiamato cascìn (come in tutta la Val di Magra, in Garfagnana, Versilia e anche in Toscana) o anche cérciu dal formagiu (“cerchio per il formaggio”, denominazione che ricorre qua e là nel Parmense), come anche nella zona di Calice e Rocchetta).

 

I testi per la cottura di focaccette varie

A Bolano, per cuocere i tipici panigàzi di farina di frumento o i castignàzi o patónia di farina di castagne o le fugàzia di farina di granturco (granón), si utilizzano correntemente i testelli in terracotta con bordino appena rilevato che ritroviamo anche nella vicina Podenzana, dove venivano prodotti grazie alla presenza di una cava di argilla refrattaria.

I testelli di questo tipo sono tradizionali dall’estremo Tigullio orientale (Valli Graveglia e Petronio) fino alla media e in parte bassa Val di Magra (e quindi anche in tutta la Val di Vara)[67]. Nel Golfo e in gran parte della bassa Val di Magra si usavano invece testi di terracotta di dimensioni leggermente maggiori e senza bordino, da usare singolarmente o a coppia e da manovrare con le molle del camino. Quest’ultima tipologia sembrerebbe essere stata sconosciuta nel Bolanese, dove però c’è ancora chi ricorda che venivano usati, come in Valle Aulella, bassa Val di Magra (esempio a Fosdinovo), sulle Apuane di Massa e Carrara e qua e là in Garfagnana, anche la versione in pietra (arenaria tenera), questa tipologia di testelli in pietra poteva anche essere impilata, ma, data l’assenza del bordino, le pile erano un po’ più precarie che non quelle fatte coi testelli in terracotta[68].

Come in bassa e in parte media Val di Magra, sulle Apuane, in Versilia e Garfagnana, in bassa Val di Vara (ad esempio a Ceparana[69], ma non a Bolano) non erano del tutto sconosciuti nemmeno i testi in ferro con lungo manico, da usare in coppia, mentre non vi è ricordo dei testi grandi in ghisa, a campana, che però potrebbero essere stati conosciuti in passato anche a Bolano, così come sicuramente lo erano nelle vicine Calice, Tresana ecc.[70]

Tornando invece ai testelli in terracotta con bordino, normalmente, dall’estremo Levante genovese fino a tutta la Lunigiana vengono riscaldati alla viva fiamma e poi, una volta raggiunto il calore giusto (che i bravi fuochisti riconoscono avvicinando al testello una mano, oppure addirittura osservando il colore o ascoltando il rumore che fa toccandolo con le molle) impilati l’uno sull’altro inframezzati dal cibo che vi si vuole cuocere (se si tratta di impasti a base di farina di castagne, che tendono ad attaccarsi e bruciare a contatto col testo, si utilizzano foglie di castagno come “carta-forno”)[71]. Solo a Bolano la procedura era differente: invece di impilare subito tutti i tèsti (in quella zona non si usano diminuitivi), una volta caldi se ne riempiva uno di pastella, si copriva il tutto con un secondo testello capovolto e si procedeva così con tutte le altre “coppie” di testelli, dopo di ché si procedeva a impilarli nella maniera “normale” partendo dalla coppia formata per prima. Questa cottura fa sì che i panigàzi (ma lo stesso si potrebbe dire dei castignàzi o patónia e delle fugàzia) di Bolano rimangano leggermente più spessi delle analoghe focaccette del resto delle vallate di Vara e Magra (compresi i panigàci della vicinissima Podenzana), con un’anima più morbida.

 

La gastronomia bolanese[72]

La cucina bolanese è pienamente inserita in quella della Lunigiana (e della Garfagnana e dell’alta Versilia) varianti della cucina ligure. Come in tutta la nostra zona ogni paese ha però le sue peculiarità gastronomiche, che lo distinguono da quelli limitrofi, anche se si tratta di piccole varianti.

Infatti esistono denominazione peculiari di alcuni piatti diffusi in gran parte della Lunigiana, ad esempio le frittelle di pasta di pane, detti sgabèi in bassa Val di Magra o pan fritu in Val di Vara, ma che a Bolano sono chiamati panzaròti.

Alcuni piatti, come la scarpàza (torta di verdure) della Vigilia di Natale hanno lo stesso nome ma variano nella composizione: a Bolano il ripieno era composto di bietole, porri o cipolle soffritti, zucca dal gran (varietà a pasta gialla chiara che cresceva nei campi di grano), formaggio e a volte pangrattato, il tutto con la sfoglia sotto o al massimo con delle griglie di sfoglia sulla superficie; ad Albiano la composizione era la stessa, ma alcuni inserivano anche dei pinoli o addirittura dell’uvetta, tradizione che ritroviamo nel fondovalle o sulle colline tra bassa Val di Magra e Golfo come a Santo Stefano, Arcola, Pitelli ed in alcune famiglie di Sarzana e Lerici, ma non in gran parte dei centri collinari (oltre che a Bolano questa tradizione è ignota a Ponzano, Falcinello, Fosdinovo, Vezzano, Valeriano ecc.[73]).

Altre denominazioni interessanti sono ad esempio mundìnia per “caldarroste”, termine, oltre che bolanese, tipico di Garfagnana, Versilia, Val di Magra e in parte Emilia centrale che ritroviamo nel Golfo fino al comune di Lerici ed in Val di Vara fino a quelli di Follo da una parte e Beverino, Calice e in parte Rocchetta Vara (a Veppo, ma non a Suvero, dove abbiamo già il ligure rustìe) dall’altra[74]. Ma anche il castagnaccio cotto in forno (con o senza foglie di castagno intorno) è interessante per la denominazione, in quanto si può chiamare patóna (come nelle alte e medie valli Magra e Vara), castignàzo (come in bassa Val di Magra e Apuane settentrionali) o farinà (come in altre zone delle basse valli di Magra e Vara e del Golfo e come in alta Val di Vara, dove il termine indicava una patùn-na sulla cui superficie, a cottura quasi ultimata, veniva spalmata della ricotta[75]). Farinà non indica quindi la farinata di ceci, piatto che anche nel resto dello Spezzino ed in gran parte della Liguria (se non addirittura nella sua totalità) era legato al commercio, ambulante e non, ma non alla gastronomia di famiglia, domestica.

Un altro piatto tipico del periodo natalizio era la fugaza de Nadalə, focaccia di Natale, dolce a base di pasta lievitata (veniva lasciato a lievitare a lungo nei tegami, larghe cazzeruole a due manici, di alluminio) e frutta secca.

Questa o preparazioni simili costituivano il dolce natalizio ed in molti casi anche pasquale in quasi tutta la Lunigiana, da Carrara e Fivizzano alle alte valli Magra (carsénta dóza) e Vara (dove il pan dùsse, altra preparazione del nostro tipo, era consumato anche a Pasqua, in analogia con quanto accadeva con le varie carsénte, pasimàte o fogàcce nel resto della Lunigiana, in Versilia e Garfagnana, e non solo a Natale come in zona genovese). In Garfagnana, nel Massese e in Versilia per Natale si mangiava il buccellàto o bellùccio. Invece la spongàta o spungàta di Pontremoli e Sarzana (come quella di Bedonia) è un dolce di origine padana che non fa parte della tradizione popolare e rurale lunigianese (o dell’alto Taro), nemmeno nelle campagne immediatamente circostanti le citate cittadine: giunta a seguito di contatti con l’Emilia era preparata solo nelle pasticcerie sarzanesi e pontremolesi (e bedoniesi). Solo da un paio di generazioni viene preparata anche da alcune famiglie delle frazioni di Pontremoli. A proposito di questo dolce tengo a far notare che il termine spungàta, con la u, è o era utilizzato pure nel Pontremolese (ad esempio a Pracchiola), non solo a Sarzana, e quindi non basta la differenza nella pronuncia per distinguere le diverse preparazioni.

Altro piatto festivo sono i turdèi, cioè i ravioli tipici liguri, anch’essi come le torte salate diffusi (seppur con numerose varianti come nel Genovese, in Oltregiogo e nel Ponente) fino a tutta l’area garfagnino-lunigianese ma assenti in Toscana (Lucchesia, Val di Lima ecc., dove ad esempio manca la verdura, elemento predominante in Liguria e zone affini).

In alta Val di Vara, in gran parte delle Cinque Terre, come su tutta la costa genovese, si aggiunge al ripieno la maggiorana, mentre molti, nello Spezzino, in Val di Magra e bassa Val di Vara usano, come sulle Apuane, il timo. Ma a Bolano, almeno in alcune delle famiglie del centro storico, c’è proprio chi usa la maggiorana e questo potrebbe essere retaggio delle tradizioni delle famiglie genovesi che in parte abitarono il borgo.

Altro piatto interessante è la pulénta figa, cioè la polenta di granturco cotta nel brodo di cavoli e fagioli. Si tratta di una preparazione poco diffusa nel Genovese, in oltre giogo e nel ponente, mentre è molto in voga in Lunigiana (dove assume numerosi nomi a seconda della zona) compresa tutta la Val di Vara (dove è detta, come nel resto dello Spezzino, polénta e còi, “polenta e cavoli”), in Garfagnana (anche qui le denominazioni sono numerose e in parte coincidenti con quelle lunigianesi), in Versilia (intrùglia o incavolàdda) ed in parte della Toscana settentrionale (Lucca, Pistoia ecc., farinàta). A Bolano colpisce la denominazione, direttamente connessa a quella della pianura di Massa, dove si dice pulénta fìcca (o anche pulénta fìca), mentre nella Montagna massese abbiamo soprattutto méschja (come a Fivizzano, Casola e alta Garfagnana) e nel Carrarese e nel Sarzanese polénta incatnà(da) e simili “polenta incatenata” e simili). A Bolano esiste anche questo detto, che attesta come quello in questione fosse un piatto prettamente invernale (non solo per la presenza del cavolo nero): quando la néva la cuménza a fiucar, pulénta figa n’ m’abandonàr (quando la neve comincia a fioccare, polenta coi cavoli non mi abbandonare).

Restando in ambito gastronomico, nella nostra zona è assai diffusa la mortadela nostrale, insaccato di carne cruda (la mortadella bolognese è invece cotta), simile alla salsiccia e da consumarsi dopo una stagionatura medio-breve, che è tradizionale dalle alte valli di Vara e Magra fino a tutta l’area garfagnino-versiliese[76].

Potremmo andare avanti ancora per molto, ad esempio citando i sangunàzi (sanguinacci, che solo da Riccò del Golfo, Borghetto V., Brugnato e Zignago si chiamano beròdi come in genovese), la cima (che è ben diffusa come in tutta la Liguria, ma che, come in tutta la Lunigiana, in Oltregiogo, in Garfagnana e Versilia è più “povera” di quella genovese, ad esempio mancando l’uovo intero ed essendo molto abbondante la verdura, soprattutto bietole) oppure il bonéto o bomba di riso, timballo di riso e carne (piccione o anche fegatelli e interiora varie) molto diffuso soprattutto a Ceparana, o ancora la zuppa di ceci della Vigilia di Natale, le torte di riso, che a Bolano come in bassa e media Val di Magra, in quasi tutta la Val di Vara (eccettuate Carro e Maissana), sulle Apuane e in Garfagnana possono essere sia dolci che salate, o ancora la mantovana, che a Bolano è più bassa e leggermente croccante rispetto a quella diffusa altrove (qualcuno a Bolano chiama quella di altri paesi anche falsa mantovana).

 

Elementi di religiosità popolare

Un tempo il tempo era scandito da varie festività religiose ed attorno alle più importanti la civiltà contadina aveva sviluppato anche una serie di “rituali” che possono variare da zona a zona.

Una tradizione molto viva ancora oggi a Bolano è quella del bèn dʹi morti, legata al culto dei defunti ed un tempo molto diffusa in Garfagnana, Versilia (fino a Casoli e Metato nel Camaiorese, alla Valturrite pescaglina, a Gioviano, Motrone e a San Romano di M. e alla Montagna coreglina) e Lunigiana[77]. Si trattava di una questua, di solito effettuata dai bambini, che, per far celebrare messe per i defunti, racimolavano noci, castagne, mele. In alcune zone lunigianesi, tra le quali non figura però Bolano, con le castagne e i pómi rodèi (o casciàni, mela rotella, varietà tipica di Lunigiana, Apuane e Garfagnana) veniva fatta anche la fìlza o rèsta, una collana che, come un rosario, alternava ogni dieci castagne lesse una mela. Le offerte così ricavate venivano devolute ai poveri, in alcuni casi attraverso unʹagape collettiva. Il Bén d’i morti è ancora praticato a Bolano, Pignone, Lerici, Castelpoggio di Carrara, Antona di Massa ecc., ma il ricordo di quest’usanza è vivo negli anziani anche altrove, ad esempio a Sasseta di Zignago ed in molti luoghi della Garfagnana. Questue di quel tipo erano assai diffuse anche in altre parti della Liguria[78], mentre nulla del genere accadeva in Toscana, nemmeno in Lucchesia. È notevole lʹanalogia con la tradizione celtica dellʹormai noto Halloween[79].

A Bolano è interessante anche il Carnevale, che prevedeva una messa in scena con tanto di processo al Carnevalón, un fantoccio che altrove è detto Re Carnevale.

Diffuso in tutta Italia era l’uso di bruciare un grosso ceppo di legno la notte della Vigilia di Natale (in Lunigiana, Garfagnana e Versilia detto il ciòcco e simili[80], mentre in Toscana si diceva il céppo); le ceneri di quel ceppo erano sparse sui campi per propiziare fertilità oppure erano conservate per curare malanni vari. In gran parte dell’area montana tra Toscana nord-occidentale, area ligure orientale e Emilia centro-occidentale non è vero che l’albero di Natale è un’invenzione introdotta dall’America nel Dopoguerra, dato che in Val di Lima, Garfagnana, Luniginana, alte valli Petronio, Graveglia, Taro, Ceno, Aveto e Trebbia veniva addobbato, a tale scopo un ramo di ginepro appositamente tagliato. Inoltre, la notte della Vigilia di Natale in varie parti della Lunigiana e della Garfagnana è testimoniato l’uso di bruciare nel camino o nella stufa rametti di ginepro per fare, si diceva, il profumo a Gesù Bambino, usanza molto antica se già nel Cinquecento l’abate Cesena la cita nella sua storia di Varese Ligure[81]. Sempre a varese l’albero di Natale in ginepro veniva bruciato il giorno dell’Epifania e le sue fiamme servivano a cuocere le lasagne; anche a Bolano questa pasta si chiama lasagne, come Piemonte meridionale ed in tutta l’area ligure fino alla Lunigiana e a Garfagnana e Versilia settentrionali (es. a Vagli , a San Romano in Garfagnana e nella Montagna seravezzina); si tratta di quadrati di pasta fresca lessati e conditi al piatto (altrove in Italia si chiamano maltagliati), quindi non passati in forno come le più celebri (e ricche) lasagne emiliane e padane. A memoria d’uomo, però, a Bolano per la Vigilia, prima di stoccafisso e cavoli neri lessi, si consuma la zuppa di ceci.

Le lasagne in varie parti dell’Oltregiogo ed anche in Lunigiana e Garfagnana venivano condite con noci tritate per la Vigilia di Natale, esattamente come accadeva nella nostra zona (Pulica di Fosdinovo) già nel Trecento[82].

Infine un accenno alla Befana, che in tutta la Lunigiana (come in Garfagnana, Versilia ed anche in Lucchesia) si muove tradizionalmente non su di una scopa volante (non è una strega!), bensì con l’ausilio di un asinello. È per questo che i bambini lasciavano fuori dalla porta una fascina di stecchetti allo scopo di rifocillare l’asinello e per lo stesso motivo alcuni genitori, oltre a fare “sparire” la fascina, cospargevano leggermente di sterco di equino la zona antistante l’ingresso.

La Befana a Bolano come in gran parte di Lunigiana, Garfagnana e Versilia è chiamata pəfàna, diversamente che altrove, dove la lettera iniziale è sempre una b[83].

 

 

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A.Viviani, Mostra permanente della Cultura Materiale di Levanto, Genova 1989.

 

VPL

AA.VV., Vocabolario delle parlate liguri, voll. I-IV, Genova 1985, 1987, 1990, 1992.

 

 

[1] Si ringrazia vivamente Maria Grazia Chilosi e gli altri bolanesi che si sono sottoposti a interviste e domande.

[2] La Versilia comprende anche Camaiore e la zona collinare di Bargecchia, Corsanico e Mommio, ma non Viareggio, la Val Freddana o Massarosa, zone, queste ultime, in tutto e per tutto lucchesi e quindi toscane; la Garfagnana si estende fino ai comuni di Coreglia Antelminelli sul lato appenninico e alla parte centro-settentrionale di quelli di Borgo a Mozzano e Pescaglia sul lato apuano, mentre ne rimane fuori tutta la Val di Lima e la zona delle Pizzorne (territori legati alla Montagna pistoiese) e le zone di Valdottavo, Corsagna, Anchiano e la Valfreddana (anch’esse culturalmente e storicamente lucchesi, quindi toscane). Vedi Armanini 2015 pp. 27-30 e, per l’aspetto linguistico-etnografico, Armanini 2017.

[3] In questo come negli altri miei lavori userò il termine Lunigiana intendendo tutto il territorio storicamente lunense e non la sola parte settentrionale della Provincia di Massa Carrara, come ormai nell’uso comune e giornalistico.

[4] Questi ultimi, a loro volta, potevano coincidere, almeno in parte, con unità demo-territoriali preromane.

[5] Per l’argomento vedi Armanini 2015 con ampia bibliografia. In quel lavoro mi occupo, ovviamente, anche del territorio bolanese, soprattutto alle pp. 304-310. Per le scoperte nel Bolanese vedi più nello specifico il contributo di N. Chiarenza in questi atti.

[6] Coppedè 1987.

[7] Per l’estensione delle caratteristiche linguistiche liguri fuori dall’odierna liguria vedi Forner 1988, Petracco Sicardi 1989 e 1992. Solo alcuni di questi territori fecero amministrativamente o ecclesiasticamente parte del territorio genovese (Ovadese, Novese, Ottonese) o di quello ventimigliese (valli Roia e Bevera), venendo staccati dalla Liguria solo al momento del compimento dell’Unità d’Italia, mentre altri (alte valli Tanaro, Curone, Staffora, Nure , Taro, Ceno, bassa Val d’Aveto, seppur legati a centri non liguri, si trovavano al confine con il Genovese.

[8] Vedi il contributo di P. G. Cavallini in questi atti. Del dialetto Bolanese si sono occupati pure Grossi 1970, Ricciardi 1975, Adorni 1976, Rohlfs 1979 ed indirettamente Plomteux 1975 (che cita alcuni termini bolanesi parlando di quelli tipici del dialetto della Val Graveglia genovese e basandosi su di un lessico manoscritto fornitogli da M. Grossi).

[9] Il massese e l’alto garfagnino, in passato classificati come toscani, sono in realtà dialetti di tipo lunigianese, vedi Armanini 2017. Vedi anche Savoia 1978 e Carpitelli 2017. I dialetti della bassa Garfagnana e della Versilia si configurano oggi come transizione tra il lunigiano ed il toscano, ma in passato sembrerebbero essere stati molto più legati al lunigiano. Vedi Armanini 2017.

[10] Cavallini 1988 e Cavallini 1999. Vedi anche, per l’area di transizione tra i dialetti “liguri orientali” e genovesi in Val di Vara Cavallini in Bono 2013.

[11] Quest’ultima zona può essere però divisa in due parti: i comuni costieri di Deiva e Framura, che non furono mai parte della Lunigiana, non mostrano tratti “antigenovesi”, mentre nei dialetti di Carro, Maissana e Varese (zona che fu in origine parte della Lunigiana, vedi Armanini 2015 pp. 23-27, con bibliografia) esistono alcune caratteristiche in contrasto col genovese e concordanze col resto della Lunigiana (Vedi Armanini Alta Vara).

[12] Vedi il contributo di P. G. Cavallini in questi atti.

[13]Vedi Ricciardi 1975 p. 128.

[14] Oltre ai lavori citati in questo articolo, si veda la lista, ancora valida, in Forner 1989.

[15] Seppur con qualche discordanza soprattutto sulla denominazione dei vari macrodialetti e sull’articolazione interna dell’area linguistica ligure più occidentale, le classificazioni di Forner (1988), Petracco Sicardi (1992a e 1995) e Toso (2002) coincidono.

[16] Plomteux 1981 e Massajoli 1994.

[17] Giardelli 1991.

[18] Vedi ad esempio Scheuermeier 1980.

[19] I vecchi contadini o/o pastori (che erano degli ottimi osservatori nel notare affinità e differenze tra la loro e le culture delle comunità limitrofe) coi quali ho potuto parlare fino a 15-20 anni fa, sia in Val di Magra che sulle Apuane che in alta Garfagnana, riconoscevano loro stessi come portatori di una cultura vicina a quella ligure e profondamente distante da quelle emiliana o toscana, consapevolezza che oggi è quasi del tutto perduta. Anche nei territori inequivocabilmente liguri dell’Oltregiogo centrale ed orientale la cosa si va perdendo. Oltre al definitivo eclissarsi dei dialetti, un esempio visibile a tutti è la “globalizzazione” in campo gastronomico che fa sì che in alcuni ristoranti di aree culturalmente (e gastronomicamente) liguri ma amministrativamente non in Liguria, si sbandieri un’improbabilissima cucina, a seconda delle zone, toscana o emiliana o piemontese…

[20] Vedi anche Toso 1995 pp. 50-53.

[21] Vedi Giuliani 1929. I Lunigianesi chiamavano quei territori il Borghigiano ([borg’zaŋ] in alta Magra, [burge’Ʒaŋ] in alta Vara), da Borgo Taro, così come consideravano la Garfagnana e la Versilia (abitata da Grafagnìn e Piastrini e non da Toscani) ben distinte dalla Toscana. I dominii genovesi erano il Genovese, termine che aveva unicamente valenza politico-amministrativa, mentre mero significato geografico avrà avuto il fatto che i Lumbardi chiamassero Toschi gli abitanti di Lunigiana e Garfagnana (aree che però costituivano la Toscanella, distinta, in qualche modo, dalla Toscana vera e propria). Per i Garfagnini erano dominio dei Toschi le zone fedeli a Firenze (Fivizzano) o a Lucca (Minucciano).

[22] Gli Emiliani sono detti Lombàrdi anche in alcune parti della Toscana (per esempio nel Pistoiese), ma è significativo che gli abitanti di Garfagnana, Lunigiana e Versilia non si considerassero né Toscani né Lombardi. Da notare che la Versilia centro-settentrionale ed alcune enclaves di Garfagnana e Lunigiana furono dal ‘400-‘500 fino all’Unità d’Italia, possedimento fiorentino, per cui il termine ha per forza valenza “culturale”. Anche il fatto che per i Garfagnini la Lucchesia fosse Toscana ha lo stesso valore, visto che Lucca non fece mai parte del Granducato! È interessante che all’epoca del Boccaccio (nel ʹ300) c’era chi poneva il confine settentrionale della Toscana presso Motrone (attuale Lido di Camaiore) e quindi, probabilmente, lungo lʹomonimo torrente, lʹodierno Lucese, includendo in Liguria tutta la Versilia, e verosimilmente anche la retrostante Garfagnana (in pratica tutte le zone che confinavano a nord-nordovest con l’area lucchese vera e propria); vedi G. Boccaccio, Commento sopra la Commedia, 1373. Da notare che in quel periodo Garfagnana e Versilia erano interamente sotto il dominio lucchese, per cui l’idea di “confine” non era legata ad una cesura politica, ma, certamente, ad una percezione di tipo “culturale” (e quindi anche linguistica). Eʹ significativo che  la cesura che qui oggi si avverte tra parlate come il massese ed il montignosino, “non toscane” ed il versiliese (che non è toscano ma oggi è “toscanizzato”), nel ʹ300 si avvertiva più a sud, tra parlate in qualche modo in continuità con quelle di Liguria e Lunigiana (garfagnino-versiliese) e parlate toscane (pisano-lucchese).

[23] Ancora qualcuno ricorda qiuesti riferimenti ad esempio a Bosio presso Gavi. Era Lumbardìa già Pozzolo Formigaro.

[24] Vedi ALP carte 42 e 45.

[25] La cosa andrebbe approfondita. Sarebbe interessante sapere se nella Riviera di Ponente (da cui provengono anche le attestazioni nel VPL), oltre che per riferirsi alla Pianura Padana, tali espressioni fossero usate anche per indicare l’Oltregiogo savonese.

[26] Ad esempio tra gli abitanti della Riviera e quelli della montagna, specie quelli dell’Oltregiogo, vedi ad esempio Toso 2006a, che attesta l’uso del termine figùn come soprannome dato dai montanari ai rivieraschi non solo nel Ponente, ma anche nell’Oltregiogo orientale ed in alta Val di Vara, area, quest’ultima, che per molti aspetti si rapporta alla Riviera nel modo tipico dei vari Oltregiogo.

[27] Ciò non avrebbe senso anche perché i Genovesi rivieraschi, pur non considerandoli lombardi, considerano o consideravano in qualche modo “genovesi di serie B” quelli dell’Oltregiogo e dell’area a quest’ultimo per certi aspetti assimilabile della Val di Vara, della Val di Magra e della costa spezzina ad est di Framura.

[28] ALI carta 458, AIS carta 238, VPL, ALF carta1006.

[29] AIS cc. 547 e 546, VPL. L’ALP tratta la scure nelle carte 559 e 614, e nella seconda dà picòsa per Mentone (altrove nei dintorni, ad esempio Peglio, la picòsa è la mazza per battere i cunei), così come Massajoli 2008 lo dà per Roccabruna, centri in cui si tratta chiaramente di influsso genovese marittimo. Vedi pure ALF carta 680.

[30] In Val di Vara, però, in una fascia di territorio compresa fra la Mola e il Gottero a Nord e Cassana, Carrodano e Valgiuncata a Sud (Carrodano Inf., Mattarana, Carro, Castello, Sesta, S.Maria, Chiusola, Godano, Bergassana, Cornice, Valgiuncata, e anche Vezzola e Montaretto) il termine utilizzato per “madia” è meisia/meisoa/meisea. Già a Montale, Buto e Costola il termine dialettale più usato torna ad essere mastra. Siamo lungo la strada che da Levanto, porto genovese, conduceva a Pontremoli, ma il vocabolo indica un arredo domestico e difficilmente ci sarà stato qualche influsso genovese legato al mare o al commercio…

[31] La teoria delle aree laterali si basa sul fatto che se due zone che presentano una certa pronuncia, una certa parola o una certa tradizione sono separate tra loro da una terza zona che non la presenta, è molto probabile che in passato anche quella fascia intermedia presentasse tale caratteristica, poi abbandonata per influssi esterni o per evoluzione autonoma (ad esempio Genova ed il territorio ad essa più strettamente connesso, dato il ruolo di porto internazionale e di polo mercantile svolto per secoli può aver recepito pronunce o vocaboli dalle aree con cui era in contatto, come la Padania o zone mediterranee extraitaliane, ma anche aver sviluppato caratteristiche proprie che non penetrarono nelle zone liguri non genovesi).

[32] Per tutti questi strumenti vedi anche Armanini 2017.

[33]Cultura contadina 2004, vol. I pp. 29-39, Caselli 1975, Caselli 1977, Caselli-Guerrini 1976, Scheuermeier 1980, vol. I, pp. 98-99 e in generale 95-102, AIS carta 1435 per Camaiore (in cui la definizione di “aratro toscano” è fuori luogo per la variante versiliese del modello ligure). A partire da Viareggio, dalla Piana di Lucca e dalla Val di Lima l’aratro tradizionale era quello tipico anche del Pisano, del Livornese ecc., molto diverso dal nostrov(archivio Società Filologica Friulana foto n. 5763, 5767 e 5768) . In area propriamente emiliana (quindi in collina, pianura o in montagna ad est della Cisa) lʹaratro “ligure” è presente, probabilmente per influssi lunigianesi solo in parte dellʹAppennino reggiano (vedi foto Società Filologica Friulana n. 6237 scattata a Busana, RE), ma non oltre la Secchia (vedi Scheuermeier 1980, vol. I foto 172 scattata a Sologno, RE, dove, come ho avuto modo di appurare io stesso, era invece tradizionale lʹaratro a doppia stegola). Per le Alpi Marittime e la Provenza vedi ALP vol. I tav. 10.         

[34] Caselli 1975, Caselli 1977, Caselli-Guerrini 1976, Forni 1996 e 2000. Vedi anche Cultura contadina 2004, vol. I pp. 29-39.

[35] Rilievi personali. Per le zone più orientali vedi Armanini 2017.

[36] Rilievi personali. Per le zone più orientali vedi Armanini 2017. Vedi anche Caselli 1975.

[37] Se in area garfagnino-versiliese ed in Apuane meridionali tutte le zappe hanno il manico corto, in Toscana, già dalla Piana di Lucca e dalle Colline Lucchesi, esse lo hanno lungo e così in Valdilima e sulle Pizzorne. Vedi Armanini 2017 per i dettagli.

[38] Il bidente di tipo ligure descritto da Scheuermeier 1980 vol. I p. 88 era diffuso anche in tutta l’area lunigianese e garfagnino-versiliese.

[39] Vedi Armanini 2017.

[40] Vedi per questo Scheuermeier 1980 pp. 85-89 e ALP vol. I tav. IX.

[41] Ho raccolto dati relativi a zappe con manico corto, forse per i contatti con Lunigiana e Garfagnana, solo nel comune reggiano di Villa Minozzo).

[42] AIS carta 1428. Per la Lunigiana vedi ad esempio Tabarrani-Orsi-Santini 1999, dove i modelli di zappa provenienti dallo Spezzino presentano quasi tutti la lama con un certo grado di curvatura verso l’interno (ovviamente non si tratta di conseguenza dell’usura, in quanto i disegni sono relativi ai modelli di zappe richiesti dai contadini delle varie zone) o a coda di rondine. Personalmente ho raccolto dati in questo senso in media e sporadicamente anche in alta Valdimagra, mentre nelle valli Taro, Ceno, Nure, Aveto e Trebbia, così come nel Tigullio, la zappa ha sempre la lama dritta o leggermente incurvata verso l’esterno.

[43] Vedi AIS carta 1418, ALEIC carta 880, Portonato 2009, Ricciardi 1975, Guerri 2006, Cavallini 2013.

[44] Lo stesso strumento in altre zone liguri e dell’Italia settentrionale, ma anche in Garfagnana, all’Elba ecc. è detto gàja, gajón e simili. Vedi AIS carta 1429 e Scheuermeier 1980 vol. 1 p. 89. Per l’area genovese e dintorni Plomteux 1975, che cita anche dati ALI.

[45] Vedi Plomteux 1981 p. 68, AIS carta 1427; anche dal VPL si arguisce che si tratta di un attrezzo poco tradizionale e poco usato. In Versilia (ma pure nel Montignosino e in parte della Piana massese), Apuane meridionali, Garfagnana (anche se De Stefani 1883 p. 100, parla di “forma triangolare”), Val di Lima (compresa l’alta valle, PT) e Lucchesia (compresa la Valdinievole, PT), la vanga non ha la lama a triangolo capovolto come in altre parti dʹItalia, ma presenta, alle due estremità della “base” del triangolo stesso, due alette, orécchie, che consentono di vangare più in profondità. In area lunigianese la vanga aveva la lama triangolare, come nella Toscana non lucchese (ma in Val di Vara non mancano esemplari con alette appena accennate). Tra Otto e Novecento i contadini della Val di Vara, delle Cinque Terre e della zona di Levanto commissionavano, oltre ad altri attrezzi, proprio le vanghe ai fabbri delle Apuane meridionali, probabilmente perché in area genovese non vi erano artigiani in grado di foggiare quel tipo di lama (vedi tavole in Tabarrani-Orsi-Santini 1999). Comunque, dato che a fine ʹ700 la vanga sembrerebbe stata (il condizionale è dʹobbligo, data la disomogeneità con cui furono raccolti i dati) poco o per nulla diffusa pure nello Spezzino (vedi, anche per le modalità della raccolta dei dati per lʹinchiesta napoleonica, Costantini 1974, in particolare cartina a p. 330) e dato che la forma della vanga lunigianese riproduce quella fiorentina e della Toscana non lucchese, è possibile che la vanga fosse poco diffusa in quellʹarea (ma anche fino a tutte le Alpi Apuane, vedi Bertagnolli 1934 per l’utilizzo esclusivo della zappa in certe zone di quell’area) e che sia stata introdotta per contatti col “Fiorentino” (altrimenti la forma diffusa in quelle zone avrebbe dovuto essere, per continuità territoriale, quella “lucchese”. Forse è per questo che in alta Versilia e in parte della Garfagnana la “vangatura” è detta zappatùra. In Oltregiogo la forma della vanga era prevalentemente triangolare (a Rovegno, in alta Trebbia, pare esistesse una vanga senza staffa, con appoggio per il piede direttamente sul lato superiore della lama, come in alcuni moderni modelli oggi in commercio), ma dalle medie valli Curone, Staffora, Scrivia, Trebbia, Nure e Taro e dall’alta Trebbia (Valbrevenna) cominciava a comparire la forma trapezioidale, che è poi l’unica utilizzata in area padana. Per le varie forme della vanga in Italia vedi AIS carta 1429, Scheuermeier 1980 vol. I, pp. 90-92 e Cultura Contadina 2004 vol. 1 pp. 24-25).

[46] AIS carta 1480, Armanini 2017.

[47] In quelle zone, così come in Garfagnana, alta Versilia e nella parte più orientale del comune di Casola in Lunigiana, la struttura costruttiva del vàllo o vallétto era costituita da un cerchio o un semicerchio in frassino al quale venivano fissate stecche (di frassino o di castagno) che formavano una specie di valva attorno alla quale si intrecciava il salice(o anche il castagno). Piuttosto  differente da quella era la struttura del modello diffuso nel resto della Lunigiana (bassa e media Val di Magra, Apuane massesi e carraresi, Valle Aulella esclusa la parte più alta, tutte zone dove era usato solo come cesto da trasporto), dove aveva un fondo di stecche di castagno disposte a stella attorno alle quali si intrecciava il salice. Sia in Garfagnana, che in Versilia che in Lunigiana l’utensile aveva due impugnature costituite da due buchi ricavati sotto l’orlo (solo raramente in Lunigiana orientale ed in alta Val di Vara poteva avere due maniglie esterne fissate all’orlo, così come di regola nel Tigullio orientale, nelle alte valli Taro, Ceno, Nure, Aveto, Trebbia, Staffora e Curone. Ancora più a nord e ad ovest (già in parte del Tigullio) il vallo aveva struttura ancora differente ed era intrecciato di sottili vimini e non di salice. La struttura a stella è invece quella tradizionale anche per i panieri di alta e in parte media Garfagnana, Apuane massesi e Carraresi e di tutta la Lunigiana, mentre altrove si ritrova sporadicamente  solo nell’Oltregiogo orientale (ma ad esempio non nel Tigullio). Per tutte queste nozioni vedi AIS carta 1481 Armanini 2017 e Armanini Alta Vara, con ampia bibliografia.

[48] AIS carta 1414, ALT dom. 169, VPL e Armanini 2017 con ulteriori riferimenti bibliografici.

[49] Armanini 2017. Per questi metodi di trasporto e per la loro generica diffusione in Liguria vedi Scheuermeier 1980, vol. II, pp. 91-110.

[50] Piemonte, nell’Oltregiogo e in Garfagnana, zone in cui l’olivo non vegeta, si produceva lʹolio di noci. La polpa che rimaneva dopo la spremitura delle noci, in Garfagnana ed in Val Borbera, non veniva buttata, anzi, veniva impastata insieme alla farina per farne un ottimo pane. Nell’Oltregiogo orientale si ricavava olio “per usi domestici” (quindi probabilmente anche per il consumo alimentare) addirittura di frutti del faggio (Giacoboni 1883 p. 315).

[51] Scheuermeier 1980, II, pp. 44-47 e vol. I foto 258 e 331.Vedi poi ALEIC 1599 (prima immagine in alto a sinistra, riferibile a Stazzema o a qualsiasi punto còrso, data lʹorbita genovese in cui gravitò lʹisola).

[52] Le due forme caratterizzavano gli orci di grandi dimensioni (che arrivavano di solito ai 90-100 cm di altezza) e quelli medi (da 70 a 75 cm). Esistevano anche piccoli orci (di 45-55 cm di altezza), usati per contenere le olive in salamoia o per trasportare lʹolio dalla cantina alla cucina. Questi ultimi avevano forma tendente al biconico e orlo svasato.

[53] Possono presentarsi inoltre decorazioni verticali costituite da colature di vetrina verde.

[54] Il paese era un’antica isola linguistica ligure occidentale in terra di Provenza; il centro era stato infatti popolato alla fine del medioevo da famiglie provenienti dall’Albenganese. Vedi Toso 2014. Seppur non prodotti in Liguria questi recipienti hanno comunque una storia, per molti aspetti, “ligure”.

[55] Vedi Durbec 1949 e Mannoni 1988, ALP, vol. II, tavola VIII, foto 3.

[56] Ringrazio M. Giambastiani per lʹindicazione di http.//www.irflucca.it/index.php?mod=Gallery/Immagini Storiche, vecchia foto relativa a Camaiore.

[57] Vedi Scheuermeier 1980, II, pp. 44-47 e vol. I, ALEIC carta 1599 (prima immagine in alto a destra, verosimilmente riferibile ai P. 54, Mutigliano di Lucca e/o 53, Pisa; in Corsica difficilmente sarà retaggio della dominazione pisana, ma probabilmente saranno giunti dall’Elba o dall’Arcipelago Toscano in genere).

[58] Vedi Mannoni 1988. Ho visto esemplari toscani fin sulle Colline levantesi, in Val di Vara e addirittura a Velva, nel Sestrese e, utilizzato come vaso da fiori, anche a Loco di Rovegno, in alta Trebbia (zona non olivicola nella quale potrebbe benissimo essere giunto come oggetto ornamentale). Sicuramente proprio alla presenza in zona di manufatti toscani è dovuto il dubbio sulla provenienza della giàra descritta in Viviani 1989 p. 35, che in realtà è di tipologia limpidamente provenzale.

[59] Ho registrato infatti anche personalmente òrciu o òrca fino a Carro e Groppo di Sesta G.

[60] Vedi Ricciardi 1975 per (Bolano, orzu e giareta); nella nostra inchiesta in paese, assieme al prof. Cavallini, abbiamo registrato cópo; per la diffusione ancora più ad ovest del tipo orcio vedi www.dialettu.it (vocabolario vernazzese, che riporta urséttu), VPL e, per la diffusione dei vari termini in Val di Magra, Garfagnana, Versilia e Toscana ALT dom. 167.

[61] In gran parte della lunigioana ed in Liguria la secchia aveva quasi sempre i due manici e questo accadeva anche a Bolano. In Versilia, Garfagnana e parte della Lunigiana (fino alle Apuane settentrionali ed al Golfo della Spezia, come attestato in alcuni dipinti di Telemaco Signorini, quali “Acquaiola alla Spezia” ed altri, nonché in vecchie foto da Portovenere, vedi Maccioni-Marchini 2006 p. 100), la secchia era priva di maniglie. Oltre a qualche informatore di Riccò del Golfo (che ricorda come la versione senza manici, ramìna, fosse usata per il trasporto dell’acqua in testa, e quella coi manici, sécia, per lo stoccaggio dell’acqua in casa), anche alcuni anziani dell’alta Val di Vara (Cassego e Scurtabò) ricordano esemplari senza manici. Allo stesso tempo, sporadicamente, esemplari con le due maniglie erano usati anche a Massa (Borgo del Ponte), dove c’è chi li ricorda come più arcaici rispetto a quelli che ne erano privi e, più diffusamente in alta Garfagnana (Pieve San Lorenzo).

[62] Vedi ALEIC carte 1595, 1595 bis e 1748 fig. 27.

[63] Vedi AIS cc. 965 e 967 (la cosa non è specificata nellʹAIS, ma già a Sologno, nellʹalto Appennino reggiano, la secchia, seppur portata sulla testa, era di tipologia “padana” con manico ad arco snodato, come si evince dalla foto 1090 dellʹ Archivio AIS dellʹUniversità di Berna; la nostra secchia era conosciuta solo nei centri più vicini al crinale dei comuni parmensi di Berceto, Corniglio, Monchio delle Corti e di quelli reggiani di Ramiseto (limitatamente al centro di Cecciola), Collagna (solo nella zona di Cerreto Alpi) e Villa Minozzo (solo nella zona di Civago e forse anche nella vicina Fontanaluccia di Frassinoro, MO), pur essendo predominante l’uso di secchi in legno, lamiera o in rame ma con manico ad arco (forse quelle zone erano frequentate anche da stagnini o da ambulanti della Val di Magra?), ALEIC c. 1595, ALI cc. 501 e 502. Vedi anche Scheuermeier 1980, vol. II, pp. 31-34 carta a pag. 36. Ad esempio in Valle Stura, Valle Orba, Valle Scrivia e Val Trebbia la secchia era utilizzata solo nelle zone più prossime al crinale col Tigullio e il Genovesato (es. Montebruno, Rondanina, Torriglia, Masone e Campo L., forse Urbe, Sassello e Pontinvrea) e non in maniera massiccia come sul versante marittimo.

[64] Vedi AIS carta 1216.

[65] Sporadicamente nell’Appennino emiliano centro-orientale era diffusa, accanto allo strumento a fascia, una scodella forata simile alla nostra ma in terracotta.

[66] Sulla sponda destra e sulla costa delle Cinque Terre e in parte del Golfo spezzino si usava una semplice coppetta o scodella di ceramica.

[67] Nel medioevo erano diffusi dal Tigullio orientale al lazio settentrionale, quindi anche in tutta la Toscana, vedi Pruno 2007 e Armanini cds.

[68] Per i testi di pietra a Bolano e dintorni vedi anche Adorni 1976, voce tèsto. Testi in pietra dello stesso tipo erano diffusi anche nel pistoiese ed in Val di Lima, dove però, a differenza di quanto accadeva in Garfagnana e Lunigiana, erano impilati con l’ausilio di un apposito supporto in legno, che consentiva di fare pile molto alte.

[69] Ceparana, come molti centri di fondovalle nati in tempi relativamente recenti, non ha un’identità linguistica o culturale omogenea, essendo stata popolata da famiglie provenienti da varie parti della Lunigiana e non solo.

[70] Esiste infatti una foto di testo a campana in Grossi 1970 (tra le pp. 176 e 177), ma si tratta di una foto scattata con ogni probabilità in alta o media Val di Vara (fu fornita da T. Mannoni, come da didascalia). Per  le analogie e differenze nell’uso dei testi grandi tra Val di Magra e Val di Vara vedi Armanini cds.

[71] In alcune zone delle valli di Magra e Vara in questo tipo testi vengono cotte anche delle piccole tortine di verdure o riso, protette da foglie di castagno.

[72] Per approfondimenti e ulteriori riferimenti sull’argomento gastronomico rimando a Armanini cds.

[73] Si tratta certamente di un’innovazione rispetto alle ricette standard delle torte salate locali, in quanto è noto che in pianura e sulla costa le tradizioni sono spesso sottoposte a influssi esterni, mentre nei centri d’altura vi è più conservatività. La tradizione di inserire uvette o molto più raramente zucchero nelle torte salate non è certamente da mettere in relazione con la tradizione delle crostate dolci di verdura che troviamo in Lucchesia, a partire dalla parte centro-meridionale del comune di Massarosa, dalla Valfreddana e dalla Brancoleria. Quest’ultima usanza la ritroviamo nelle zone a contatto con l’area culturalmente ligure ma parte di aree culturalmente toscane (Lucchesia), padane (parte dell’Appennino modenese, reggiano, parmense e piacentino) ed occitane (Nizza e bacino del Varo), dove, cioè, il concetto di torta non poteva essere svincolato da quello di “dolce” e dove il contatto con le confinanti comunità culturalmente liguri (Garfagnana, Versilia, Lunigiana, Oltregiogo, Valli Roia e Bevera, Mentone e Montecarlo) le quali preparavano tradizionalmente torte salate, portò alla creazione di questi strani dolci. (invece, più a nord, nella parte culturalmente garfagnina e versiliese dei comuni di Massarosa, Camaiore, Pescaglia e Borgo a Mozzano le torte verdi tradizionali sono salate). Per l’argomento torte vedi Armanini cds.

[74] Nelle stesse zone giungono anche altri termini castani coli tipici delle stesse zone di mondine e simili, ad esempio sérva (selva) per “castagneto”. Altri come luché “pula risultante dalla battitura delle castagne” (in genovese, nel Ponente e in alta Val di Vara urba, termine non sconosciuto nemmeno nella zona lunigianese), rùveu “pellicola della castagna” (a Varese, Maissana ecc. sìggia come in Oltregiogo e in area lombarda; in genovese lüggiu), pistüi (pìstùri, “castagne rotte durante la battitura” (in genovese, in alta Val di Vara e nel Ponente pestümmi) interessano anche la media e parte dell’alta Val di Vara, le Cinque Terre ed il Levantese, per lasciare il posto ai corrispondenti genovesi solo più a monte. Vedi Armanini Alta Vara.

[75] Vedi Armanini cds con bibliografia.

[76] Eccettuata una piccola parte del comune di Albareto (alta Val Taro, PR) e l’alta Val Graveglia (GE, dove sarà giunto dall’alta Val di Vara), tutto atorno a Lunigiana, Garfagnana e Versilia l’insaccato è completamente sconosciuto. Una certa similitudine possiamo trovarla nella mustardella delle alte valli Scrivia e Borbera, che comunque ha molte caratteristiche differenti (stagionatura più lunga, modalità di consumo differenti ecc.).

[77] Vedi Armanini 2017.

[78] Vedi Schmuckher 1990, vol. III, pp. 181-196 e Giardelli 1991. A Masone (alta Valle Stura, quindi Oltregiogo centrale, GE) esiste addirittura la nostra dicitura, bén di mòrti.  Per la Garfagnana Rossi 2004 pp. 104 e 105, ripresa anche da Bertozzi 2015, dove si riporta, erroneamente la data del 31 dicembre (in realtà era la sera del 1°  novembre).

[79] Vedi Piccioli 2011.

[80] In alcune zone della Garfagnana anche nataléccio, nome che è andato ad indicare anche particolari falò all’aperto della notte di Natale dell’alta Garfagnana. Vedi  Armanini 2017.

[81] Cesena 1558 pp. 100-105. L’usanza è documentata anche per l’alta Val di Magra e la Garfagnana. Vedi Armanini 2017.

[82] Anche nel Nizzardo i ravioli di zucca sono tradizionali della Vigilia di Natale e vengono conditi proprio con una salsa di noci tritate. Per Pulica vedi Ferrari s.d.

[83] Armanini 2017 con bibliografia.